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Per raccontare la storia della cantina storica della Fortezza Orsini, è necessario fare un salto indietro nel tempo. Sin dall’epoca etrusca, la bassa Toscana e l’alto Lazio, l’antica Tuscia, era caratterizzata da un territorio naturalmente fertile grazie alla sua origine vulcanica. È infatti accertato che il Lago di Bolsena, un vulcano ormai inattivo, abbia influenzato positivamente il terreno, rendendolo ideale al progredire delle civiltà, per la coltivazione dei grani, ma anche di viti e ulivi. Le popolazioni che si sono succedute in questa zona hanno basato il loro commercio principalmente sull’agricoltura, iniziando a trarne profitto già ai tempi in cui la famiglia Orsini dominava sulla regione. In questo contesto storico, agli inizi del ‘900 la bassa Toscana vede emergere numerosi piccoli produttori che iniziano a produrre grandi quantità di uve. Nel 1946 nasce la Denominazione di Origine Controllata (DOC) del Bianco di Pitigliano, la 6° DOC nazionale e nel 1954 a rappresentazione dell’impulso commerciale la cantina cooperativa di Pitigliano, dove si è iniziata la vinificazione del Bianco di Pigliano DOC che fu distribuito, facilmente, in tutto il centro Italia per circa 40 anni. Il formato che lo rese appetibile e famoso era un bottiglione da due litri che veniva venduto al prezzo di circa 1.500 lire, contribuendo notevolmente al successo del prodotto. La Doc Bianco di Pitigliano prevede l’utilizzo di uvaggi al 70% di Trebbiano e poi delle sotto varietà locali come il Procanico e la Malvasia, era pensata appunto per soddisfare le necessità del mercato dell’epoca, ovvero alimentare la forza lavoro italiana nel primo dopoguerra, dunque con una visione orientata alla massimizzazione delle quantità di uve prodotte.
La Cantina Storica della Fortezza Orsini è rimasta nascosta dal momento della sua dismissione intorno ai primi anni cinquanta del 1900 fino al 2020, ed è stata recuperata al disuso grazie ad un ritrovamento casuale, si tratta della prima cantina cooperativa del territorio che per anni ha rappresentato il centro vitale per la produzione del vino delle Città del Tufo. L’architettura dell’impianto è quella tipica delle cantine delle città del tufo ma in formato industriale. La parte superiore è chiamata “tinaia” appunto caratterizzata dalle grandi tini circolari, eccezionali nelle loro dimensioni, dove i grappoli d’uva venivano lavorati con il metodo tradizionale, pigiati con i piedi per estrarre il mosto, mentre la vinificazione avveniva successivamente in botti di legno locale, una volta pronto, il vino veniva accuratamente stoccato nelle profondità della cantina, nella zona chiamata bottaio, che grazie alla sua temperatura costante fra i 9 ed i 12 gradi centigradi, era in grado di garantire il mantenimento dei prodotti durante il corso delle varie stagioni.
Abbiamo detto che il Bianco di Pitigliano ebbe un grande successo immediato. Tuttavia, i produttori, a causa dell’isolamento del territorio, poco collegato con il resto d’Italia, non riuscirono ad evolvere le tecniche di produzione e gestione dei vigneti per restare competitivi con la grande espansione del mercato del vino. Alla fine degli anni ’90, con il rapido aumento delle DOC e della qualità delle altre produzioni in Italia, che superarono le 400, il Bianco di Pitigliano perse quasi tutte le sue quote sul mercato.
Dei 2000 ettari di vigne originarie, circa la metà furono dismesse o convertite in uliveti, mentre altri 700 ettari furono acquisiti fra gli anni ‘90 ed il 2000 da due grandi produttori del mercato vitivinicolo, che arrivarono sul territorio con una visione più imprenditoriale della produzione, fornendo al mercato locale i primi esempi del potenziale qualitativo delle uve delle terre vulcaniche delle Città del Tufo.
All’inizio degli anni 2000, assieme ai grandi produttori, iniziarono le prime produzioni artigianali grazie ad appassionati del settore, che hanno iniziato ad interpretare il potenziale in questo territorio, investendo fin da subito sia sull’acquisto di terre sia sulla sperimentazione nelle vinificazioni cominciando ad invecchiare il Ciliegiolo e macerare il Trebbiano. È il caso di Carla ed Edoardo, oggi proprietari della cantina Sassotondo, che con una visione consapevole e allo stesso tempo contemporanea della gestione del vigneto e delle tecniche di produzione, hanno dato dimostrazione che anche nelle Città del Tufo è possibile produrre vini di alta qualità.
In soli venti anni, sul territorio si è sviluppata una rete di piccoli produttori che, se come popolo italiano non fossimo caratterizzati da una bassissima capacità di collaborazione, potrebbe essere chiamata un movimento. Questo movimento, pur non essendo ufficialmente riconosciuto, fonda le sue origini su tre caratteri comuni: tradizione, sperimentazione e innovazione. Si tratta di piccole, in alcuni casi piccolissime produzioni, lavorate in ambienti tradizionali o con procedure tradizionali, dove la sperimentazione sugli uvaggi locali viene fatta per passione, con l’ambizione e l’intento di migliorare, ampliare e diversificare l’immaginario non costruito del vino del territorio delle Città del Tufo.
In questa costellazione di cantine, ciascuna con la propria individualità, si distinguono nomi come:
Il recupero dei vecchi vigneti e, parallelamente, la sperimentazione hanno arricchito il panorama vinicolo con nuove tecniche, come l’affinamento dei vini rossi in materiali diversi come le anfore o la macerazione dei vini bianchi ed ancora come per il nostro rosato Burrasca, prodotto dall’azienda I Tre Cippi, un vino che nasce dall’utilizzo di uve Ciliegiolo in purezza ma vinificate in bianco. La sperimentazione sul tema vino che sta caratterizzando il territorio delle Città del Tufo, l’unico terroir vulcanico di Toscana, è un ambito ancora in piena esplorazione ma che promette una significativa innovazione e crescita del mercato.
Hotel della Fortezza
Via Benedetto Cairoli 5
58010 Sorano (GR)